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Dal funzionamento della mente alla sofferenza emotiva: il ruolo delle rappresentazioni mentali

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Per iniziare a comprendere la nostra mente possiamo cominciare col chiederci che funzioni assolve e in che modo. Con facilità ci renderemo conto che la mente permette di ragionare e riflettere su come ottenere le cose che ci servono per vivere e come raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati. Potremmo dire che regola il nostro comportamento per raggiungere degli scopi. Nello specifico permette di svolgere azioni per ottenere un cambiamento da uno stato percepito (situazione presente) ad uno stato da raggiungere (situazione futura desiderata). 

Per esempio se abbiamo fame e desideriamo preparare una pasta al forno, inizialmente scorriamo nella nostra mente gli ingredienti necessari, le modalità per reperirli, le azioni da svolgere, solo successivamente procediamo attivandoci per eseguire quanto pensato. Se tutto va secondo i piani e le nostre azioni si rivelano funzionali, ci troveremo a gustare la nostra pasta al forno.

Le azioni da compiere sono scelte sulla base dell’esito atteso, quindi su quanto si pensa possano permettere il raggiungimento del nostro scopo. Diviene quindi essenziale prefigurarsi cosa potrebbe succedere se facessimo un dato gesto, le conseguenze a breve termine e le conseguenze a lungo termine. La nostra mente infatti vaglia una serie di alternative di azioni selezionando quelle che ritiene più idonee rispetto alle nostre esperienze e, per essere precisi, in riferimento alle nostre credenze. 

Si definisce credenza quello che appartiene alla nostra percezione della situazione presente, precedentemente chiamato “stato percepito”. Si tratta di rappresentazioni mentali e assunzioni, inerenti:

  • Il modo di vedere sé stessi e il mondo;
  • le personali risorse, capacità, abilità;
  • le condizioni desiderabili, la raggiungibilità e i mezzi più idonei per raggiungere gli scopi.

Potremmo comprendere meglio il concetto di credenza ragionando sulla parola stessa e traducendola in ciò che CREDIAMO del mondo e di noi stessi. Parliamo quindi della personale rappresentazione del mondo così come ci appare che differisce dall’idea di conoscenza che dovrebbe avere carattere di oggettività.

Pensiamo ad un artista che riproduce un paesaggio, potrebbe scegliere di cercare di rimanere fedele a ciò che vede o creare qualcosa di diverso rispetto a una mera riproduzione. Anche nel caso in cui volesse riprodurre la realtà nel modo più verosimile possibile, si potrebbero osservare differenze e sfumature non appartenenti al paesaggio. Si tratta quindi di una rappresentazione, più o meno fedele, più o meno veritiera, ma in ogni caso personale. Allo stesso modo le credenze differiscono da individuo a individuo, anche se la cultura e l’ambiente sociale di provenienza sono da considerarsi fattori che determinano alcune visioni comuni del mondo. Infatti, una credenza può costituirsi nella nostra mente attraverso la percezione e quindi i sensi oppure attraverso il dialogo e quindi ciò che credono gli altri.

In ultima analisi, la connessione tra le credenze può permettere di dedurre, dalle credenze possedute, altre credenze. Certo non tutte le credenze hanno uguale valore e sicuramente saremo più propensi a credere a qualcosa che ci viene detto da un nostro caro amico piuttosto che da un estraneo, oppure potremo pensare o dire frasi del tipo “credo che andrà così”, quando non siamo molto sicuri in merito a ciò che accadrà, oppure dire “sicuramente andrà così”, quando ne siamo più convinti. Resta in ogni modo evidente il ruolo determinante che hanno le credenze per il raggiungimento di un fine. Volendo riassumere quanto detto, potremmo dire che la mente giunge a soluzioni attraverso un’attività mentale che mette in relazione credenze e scopi, simulando possibili scenari. Essendo più precisi, è in relazione alla rappresentazione di sé, dell’ambiente circostante e di come si pensa di poter intervenire per modificarlo, che verrà agito il comportamento pensato come più funzionale ed efficace. Ne consegue che si potrà avere un feedback positivo che indicherà che lo scopo è stato raggiunto o un feedback negativo che indicherà il non raggiungimento dello scopo. In quest’ultima condizione verranno vagliati gli impedimenti e le incongruenze tra la previsione e ciò che è avvenuto, per cercare di risolvere il problema e raggiungere ugualmente lo scopo desiderato. Credenze e scopi, essendo entrambi fondamenti della mente, rispondono alle stesse regole e hanno un funzionamento molto simile. Sono entrambi caratterizzati da interconnessioni tra loro e possiedono una struttura gerarchica che implica credenze o scopi più “forti” o più “deboli”.

Immaginiamo di dover organizzare un’uscita serale e di voler vedere un concerto in un locale e mangiare un panino avendo a disposizione un budget economico limitato che permette di fare solo una delle due cose: la scelta si baserà sull’importanza dello scopo, cioè su cosa per noi risulta prioritario. La valutazione, quindi, dipenderà dalla priorità dello scopo da raggiungere. Vorrei far notare che nel caso specifico del panino se non mangio da più di due giorni e non so quando potrò mangiare nuovamente (ipotesi di pericolo di vita), la scelta sarà simile quasi per tutti e cioè saremo più propensi a scegliere il panino. Però, non è sempre facile scegliere: la valutazione degli eventi può dipendere da variabili personali. Se per esempio il concerto è della mia band preferita, che potrò vedere solo in quella circostanza, e non sono a rischio vita, anche se non mangio da molto tempo, potrò decidere di scegliere il concerto. Certamente per molti di noi potrebbe sembrare una scelta irrazionale, questo avvalora l’ipotesi che la variabile “soggettività” abbia una notevole influenza.

Anche prima di essere in prossimità del concerto, chi apprezza molto la musica di “quella band”, comincerà ad immaginare le sensazioni che proverà trovandosi lì. In altre parole avrà una rappresentazione mentale che darà vita a sensazioni nel presente che sono parte integrante del desiderio. Quando pensiamo a cosa desideriamo, infatti, proviamo delle sensazioni positive. Fanno parzialmente eccezione desideri come quello di espiare le proprie colpe, dico parzialmente perché nella rappresentazione inerente il momento dell’espiazione non ci saranno sensazioni gradevoli, ma le rappresentazioni del dopo aver espiato saranno caratterizzate da un senso di liberazione, una sensazione positiva rispetto al peso della colpa. Per quanto possa sembrare strano, penso che sia possibile che la rappresentazione del momento dell’espiazione contenga un alleggerimento morale dettato dal fatto che si sta provvedendo a fare ciò che si deve per sentirsi in pace, e che quindi l’idea della pace potrebbe permettere la percezione di sensazioni positive.

I desideri differiscono rispetto agli altri scopi (bisogni e intenzioni) anche per un’altra caratteristica: è più plausibile che possano essere procrastinati e alle volte mai realizzati, per esempio il desiderio di una Ferrari oppure di una vacanza 5 stelle con partenza immediata. Al contrario i bisogni e le intenzioni, tendono ad essere soddisfatti con più facilità anche se possono ugualmente essere momentaneamente procrastinati. Per esempio, ho bisogno di bere, so che posso rimandare, ma non eccessivamente. Per semplicizzare il proseguo di questa disquisizione useremo il termine scopi per indicare desideri, intenzioni e bisogni, considerando che rappresentano tutti uno stato da raggiungere, quello verso cui siamo protesi, potremmo dire “quello che vorremmo che accada”. Potrebbe ora risultare più comprensibile che la sofferenza psicologica o meglio la sofferenza emotiva può essere determinata da una discrepanza tra credenze e scopi che non può essere colmata o non nel tempo previsto dal soggetto e che genera la frustrazione degli scopi. Mi spiego: la credenza rappresenta ciò che è e quindi lo stato attuale, mentre lo scopo ciò che sarà, di conseguenza esiste a priori una discrepanza tra le due rappresentazioni tale che l’obiettivo del soggetto è colmare questa discrepanza raggiungendo lo scopo. Per esempio: il mio scopo è travasare un albero di mandarino giapponese che attualmente credo sia in un vaso piccolo. Mi attivo per tirarlo fuori dal vecchio vaso e metterlo nel nuovo, una volta riuscito potrò dire di aver realizzato il mio scopo.

Esiste nella nostra mente anche la rappresentazione del lasso di tempo che si dovrebbe impiegare per raggiungere uno scopo. In questo caso potrei dire che nella mia mente varia da mezz’ora ad un’ora al massimo. Se non riuscirò a trapiantare il mandarino entro un’ora sperimenterò sofferenza emotiva, in quanto il mio scopo sarà parzialmente frustrato. Questo non vuol dire che non potrò più riprovarci, ma che avrò comunque sperimentato una forma di sofferenza. Oltre al tempo, abbiamo anche un’idea di come deve essere lo scopo da raggiungere. Per esempio, se immagino di dover dipingere una parete, ho nella mia mente la rappresentazione della parete dipinta e del modo in cui è dipinta. Quindi se la mia rappresentazione è di una parete verde chiaro e molto liscia, ma dopo che l’ho dipinta il risultato è che la parete è un verde più scuro o la superficie ha dei bozzi, il mio scopo sarà frustrato.

Riassumendo possiamo dire che la minaccia, il non raggiungimento parziale o totale di uno scopo (comprendendo anche il non raggiungimento nel tempo previsto) sono alcune cause della sofferenza emotiva.

Un altro aspetto importante da valutare è l’importanza che lo scopo ha per noi: più uno scopo è importante tanto maggiore sarà la sofferenza per la sua frustrazione. L’esempio precedente, tra il panino e il concerto, può permettere la comprensione del valore di uno scopo e quindi di quanto può essere più importante uno scopo rispetto ad un altro. Sarà possibile quindi comprendere che la sofferenza emotiva è proporzionale all’importanza dello scopo. Come detto in precedenza, esiste quindi una chiara gerarchia tra scopi che vedrà quelli più rilevanti nelle prime posizioni e quelli via via meno rilevanti nelle posizioni seguenti. Inoltre è possibile vedere le connessioni tra gli scopi e come scopi più piccoli possano essere orientati verso il perseguimento di scopi più grandi e/o importanti. Per esempio immaginiamo che il mio scopo principale sia quello di realizzare un orto, per poterlo raggiungere dovrò realizzare altri scopi funzionali all’ottenimento del mio orto: dovrò trovare un terreno, acquistarlo, comprare le macchine, i concimi e i semi, imparare la ciclizzazione delle colture e così via sino al raggiungimento del mio scopo principale. Alcuni scopi che consideriamo principali possono in realtà essere funzionali al raggiungimento di altri scopi gerarchicamente più rilevanti. Per esempio, l’orto può essere considerato uno scopo funzionale rispetto al mio desiderio di vivere una vita felice, che in questo caso diverrebbe il mio scopo principale. Arrivati a questa conclusione potremmo dire che per molti avere una vita felice è uno scopo principale, ma per raggiungere questo scopo tutti noi seguiamo strade diverse in base ai nostri gusti personali e alle cose che ci piace fare. Per alcuni creare un orto potrebbe essere uno scopo funzionale verso lo scopo principale “essere felici”, per altri avere una barca e andare a pesca, per altri suonare in un gruppo musicale e così via. Allo stesso modo, il “non soffrire” può essere visto come uno scopo principale che si cerca di raggiungere attraverso scopi funzionali.

In conclusione le credenze influiscono sugli scopi e gli scopi a loro volta sono correlati con le credenze, la sofferenza psicologica, quindi, può dipendere da entrambi e dalla loro relazione.

Vediamo da vicino degli esempi pratici:

 

Il caso di Vanessa: la credenza di non essere amabile

 

Vanessa ha 25 anni, vive con i genitori ed ha una sorella di 21 anni. E’ iscritta al terzo anno di medicina e lavora in un bar per mantenersi durante gli studi. E’ una ragazza di bella presenza, curata e determinata e cerca sempre di impegnarsi al meglio per risolvere le difficoltà che incontra. Nelle sue giornate interagisce con molte persone sia nel suo ambiente lavorativo che all’università, ma ritiene di non avere rapporti veri e relazioni significative. Riferisce di soffrire molto per questa assenza di legami “veri” e che questa è la storia della sua vita da sempre. Vanessa nel profondo crede di non essere una ragazza meritevole di affetto e attenzioni, si considera poco interessante e crede che per queste ragioni nessuno voglia stringere una relazione “vera” con lei. Una cliente del bar le sta particolarmente simpatica e capita che al termine dell’orario lavorativo si trattenga con lei per chiacchierare un po’. Dopo poco Vanessa tende ad andar via e evitare di continuare la conversazione nonostante consideri piacevole trattenersi con quella cliente. Ritine che i suoi argomenti finiranno per essere considerati noiosi e che una volta scoperta per quello che è, verrà considerata poco interessante e allontanata. Vanessa crede di non essere amabile, ma ha lo scopo di avere rapporti più intimi e confidenziali. All’atto pratico le persone si avvicinano a lei e avrebbe sufficienti ragioni per mettere in dubbio la sua credenza. Tra l’altro le capita di avere complimenti e di essere invitata ad uscire.

 

Come la credenza ha effetto sulla vita di Vanessa?

 

Le credenze sono difficili da modificare e tendono a influenzare la visione degli eventi e le azioni che di conseguenza vengono messe in atto divengono conferme per il mantenimento della credenza. Nel caso di Vanessa lei evita di parlare di sé, evita di uscire spesso con le stesse persone, va via mentre le conversazioni cominciano a diventare più intime e ne consegue che può apparire disinteressata, come chi ha di meglio da fare. Alle volte le capita che alcune persone le dicano che “ si sente” cioè che appare come una persona che si considera superiore. Come può sembrare una persona che quando cominciamo a farle domande sulla sua vita dopo che abbiamo parlato di noi, tende ad andare via o a sorvolare o a rispondere in modo molto sintetico? Pensiamo che vuole rivederci? Abbiamo voglia di rivederla?

In questo modo l’idea di Vanessa di non essere amabile è confermata dalle risposte sociali che ottiene.Un altro importante meccanismo di mantenimento della credenza è determinato da come Vanessa interpreta i comportamenti degli altri. Per esempio, mentre parlava con Giacomo, Vanessa riferisce di averlo visto distogliere lo sguardo da lei più volte durante la conversazione. In un'altra circostanza mentre parlavano, lui ha sbadigliato, un'altra volta ancora ha visto Giacomo controllare il cellulare. Ha interpretato questi gesti come una mancanza di interesse e ha confermato la sua credenza. Giacomo è un metronotte e finisce di lavorare alle 7.30, ma ha la reperibilità telefonica sino alle 9.00 e si intrattiene nel bar dove lavora Vanessa perché ha una simpatia per lei. Giacomo arriva al bar molto stanco, dopo una notte di lavoro e per questo sbadiglia ogni tanto, inoltre guarda il telefono per via della reperibilità telefonica. Vanessa sa tutto, ma osserva e considera le situazioni e i comportamenti degli altri in linea con la sua credenza.

 

Il caso di Mario: gli scopi irraggiungibili

 

Mario ha 53 anni, è un avvocato riconosciuto e stimato, vive in un appartamento nel centro della sua città e ha rapporti esclusivamente occasionali con alcune donne, riferisce di non sentire l’esigenza di avere una compagna. Gioca a tennis con alcuni amici solo dopo aver concluso le sue cause in tribunale e solo quando le vince. Per Mario è fondamentale riuscire nel suo lavoro ed essere considerato il migliore. A volte sceglie cause difficili per mettersi alla prova, le considera come sfide con se stesso e prove del suo valore. Nel corso della sua carriera ha vinto molte cause, ma questa volta ne ha persa una per lui particolarmente importante e da allora ha un umore depresso e ha difficoltà a riprendere il suo lavoro. Mario valuta il suo valore personale in funzione della sua riuscita nel lavoro e crede che una persona ha valore solo se è in grado di ottenere successo in quello che fa, al contrario considera perdenti e senza valore coloro che non raggiungono il successo lavorativo.

La sua sofferenza è molto acuta e per giorni dopo l’esito della causa non è uscito di casa. Ad oggi si sente fallito, deluso da se stesso e, a differenza di altri episodi capitati in passato, non prova neanche rabbia, un’emozione che tempo addietro gli aveva permesso di rialzarsi. Questa volta è diverso non perdeva una causa da tempo e il suo cliente aveva avuto il suo contatto da un collega che lo aveva definito uno dei migliori avvocati della provincia. Il suo collega aveva rifiutato il caso perché particolarmente complesso, mentre lui lo aveva accettato per la stessa ragione. Mario, grazie alle sue abilità, non aveva completamente perso la causa, infatti aveva permesso al suo cliente una riduzione notevole della pena, ma nonostante ciò per lui questa causa rappresenta “la rovina della sua carriera”.

 

Come mai soffre così tanto??

 

Lo scopo di Mario non è essere un ottimo avvocato, ma vincere sempre le cause. Inoltre la vittoria deve essere come lui l’ha immaginata e quindi totale. Per lui questo significa: “Essere un vincente” La sofferenza che prova è legata alla credenza che un insuccesso lavorativo è indicativo della perdita di valore personale. Perdere una causa per Mario significa essere un perdente.

Il rischio per Mario non è perdere una singola causa, ma perdere il suo valore che considera strettamente connesso quindi al successo. Né consegue che un evento, non viene interpretato come singolare, ma assume un’importanza e un peso veramente notevole. La sua valutazione oscilla da un estremo all’altro, quindi può essere o un vincente o un perdente e lui si considera un perdente. Quando si sente in questa condizione, pensa che anche se dovesse provare a tornare in tribunale continuerà a non vincere o c’è una grande probabilità che accada. Mario quindi nella condizione di perdente sovrastima il rischio futuro di perdere. Al contrario nella condizione di vincente sovrastima la possibilità di vincere. Questa sovrastima lo porta ad avere un’aspettativa poco realistica anche quando le condizioni non sono a lui favorevoli. Nel suo modo di pensare l’errore non è possibile, potremmo dire che non considera di essere fallibile e quindi non considera di essere “un uomo” cioè una creatura che naturalmente può compiere degli errori.

Mario considera l’esito della causa come dipendente esclusivamente da lui, non valuta agenti esterni come per esempio: la difficoltà del caso (reati e prove a disposizione), il giudice che emette la sentenza, etc. Queste prerogative inducono un atteggiamento ipercritico verso di sé che non lo porta a considerare il reale esito della causa e cioè la parziale riuscita. Quando un risultato non è come lui lo ha immaginato, vuol dire che non ha ottenuto nessun risultato.

Un altro tema che non è stato trattato è quanto Mario consideri il giudizio degli altri e quanto questo influisca sulle sue valutazioni. In realtà non è prettamente il giudizio il focus ma quello che lui pensa che gli altri potrebbero pensare. Estende il suo modo di pensare alla mente degli altri e crede che la stessa valutazione che fa di se stesso sia condivisa anche dagli altri.

Vinco le cause in modo schiacciante --> sono un vincente --> ho valore come persona --> gli altri riconoscono le mie competenze

Non ottengo l’esito atteso --> sono un perdente --> non ho valore come persona --> gli altri mi svaluteranno

Questo, in aggiunta ai fattori presi in considerazione precedentemente, spiega la ragione della sua maggiore deflessione dell’umore rispetto ad altri episodi quando non ha raggiunto l’esito da lui atteso. Inoltre, la sofferenza che Mario prova e la richiesta di aiuto psicologico che fa per cercare di star meglio, divengono per lui conferma del suo essere debole e del suo essere un perdente.

 

dott. Gabriele Ferlisi